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Le guerre del momento viste dalla mia scrivania
<<Non si può mai stare tranquilli!>>
Questo è quello che molti di noi pensano in questo periodo.
Nemmeno il tempo di uscire da una lunga pandemia che subito arrivano prima la guerra in Ucraina e poi il conflitto in Medio Oriente a togliere, a noi fortunati, la tranquillità.
Sì, fortunati, perché il turbamento che possiamo provare noi che vediamo il conflitto in tv è nulla in confronto alla tragedia che stanno vivendo le popolazioni interessate da queste guerre.
Guerre diverse per cause, tipologia di attori coinvolti e per la polarizzazione che sta generando negli altri paesi.
E per le conseguenze sui mercati finanziari mondiali.
Sorvolo sulle cause, limitandomi a constatare la situazione di fatto che vede in corso questi due conflitti, senza che si possa intravedere all’orizzonte una soluzione.
Gli attori?
Nel caso del conflitto europeo abbiamo da un lato la superpotenza (o presunta tale) Russia contro la “piccola” (non per estensione) Ucraina.
La prima grande produttrice di materie prime, in primis di petrolio e gas, e potenza in campo sia militare che aerospaziale, che poi sono due settori che in buona parte si sovrappongono. Sotto quest’ultimo aspetto un po' in ombra rispetto a quanto ci hanno insegnato i blockbuster americani, dove l’astronauta yankee viene sempre affiancato dall’omologo russo, ubriacone ma spesso risolutivo quando la navicella spaziale perde pezzi. A quanto pare questa bravura, per fortuna, sembra essere venuta meno, e quella che molti all’inizio avevano previsto come guerra lampo si è dimostrata essere decisamente lunga e logorante.
La seconda, contigua alla prima, ha lo stesso tipo di ricchezze, anche se quantitativamente più ridotte e senz’altro sfruttate in maniera meno sistematica. Ma può vantare anche un’intensa produzione di materie prime alimentari, che le consente tra l’altro di essere soprannominata “il granaio d’Europa”.
Due protagonisti diversi.
Ma non saranno mai più diversi di quelli che si fronteggiano in Medio Oriente.
Da un lato Israele, ricco paese con l’esercito probabilmente meglio equipaggiato al mondo, e dall’altro Hamas, organizzazione politica dalla forte connotazione religiosa e, dallo scorso 7 ottobre, vincitrice della medaglia di “terrorista dell’anno” grazie ad un attacco militare che ha causato la morte di circa 1.400 civili innocenti.
In realtà in questo conflitto c’è un terzo attore. Inerme, usato come scudo umano da Hamas e come pungiball dall’esercito israeliano: i palestinesi.
Le conseguenze a mio avviso saranno, se ci saranno, più strutturali e di lungo periodo e legate più a questioni politiche che economiche in senso stretto.
Qualche anno fa il primo effetto sarebbe stato l’impennata del prezzo del greggio. Basti pensare a quanto accadde in concomitanza della guerra del Kippur nel 1973 e dell’invasione del Kuwait nel 1990.
Stavolta l’effetto è stato nullo. Perché? Eppure sono coinvolti il secondo produttore mondiale di petrolio e, anche se indirettamente (per via della pur riduttiva contrapposizione, tra islamici ed ebrei) la galassia dei paesi di fede musulmana.
Innanzitutto da qualche anno la produzione statunitense, grazie alla tecnica del fracking ha spiccato il volo, passando da circa 10% del totale nel 2000 al 19% dello scorso anno.
Inoltre oggi il petrolio non è più la materia prima energetica quasi esclusiva degli anni Novanta e Duemila. E di questo dobbiamo ringraziare la spinta green che sta mettendo all’angolo il mondo del fossile a favore delle fonti di energia rinnovabili.
Difficile da quantificare anche l’effetto diretto sul mercato delle altre materie prime industriali.
In questo molto gioca il peso della Cina, che già da qualche anno ha spostato sul terreno dell’estrazione, trasformazione e commercio di materie prime fondamentali per l’industria tecnologica la sua battaglia contro l’Occidente.
Penso che gli effetti saranno di lungo periodo perché questo status quo porterà ad un nuovo assetto delle relazioni commerciali tra i paesi.
Al netto del blocco del commercio dei prodotti petroliferi russi verso l’Occidente, che di fatto agevola le industrie oil statunitensi e le aziende “energivore” cinesi, penso che passeranno anni prima che potranno ristabilirsi tra le parti rapporti stabili e proficui.
Punto interrogativo anche sulle relazioni tra Stati Uniti ed Europa da un lato e paesi arabi dall’altro. Anche se le tensioni sembrerebbero meno nette: passato lo choc iniziale i primi non hanno esitato a prendere le distanze dalla condotta del primo ministro israeliano Netanyahu, artefice di una serie di risposte militari scomposte che stanno lasciando una lunga scia di sangue.
Probabilmente oltre che per un giudizio di merito sulla vicenda degli attacchi militari israeliani anche per non entrare in contrapposizione con il mondo arabo.
Un mondo arabo che, a modo suo e con il suo stile kitsch (“cafone” diremmo a Roma…), da qualche anno sta cercando di mettere la testa fuori dalla sabbia delle sue dune zeppe di petrolio, consapevole che l’era dell’oro nero sta volgendo al suo epilogo.
Lo sta facendo costruendo da zero, con investimenti faraonici, città dalla forte attrattività turistica (come l’ormai consolidata Dubai o la futura “The Line” che sorgerà in Arabia Saudita) o interi settori sportivi, accaparrandosi a cifre stratosferiche le prestazioni dei migliori calciatori del mondo.
E non credo che anche per loro sia utile rinunciare alla fetta di utenti occidentali di questi nuovi (per loro) business.
Ritengo che in questo momento non ci si debba “inventare i draghi”, tirare fuori dal nulla chissà quale soluzione, ma affidarsi all’ovvio, mettendo insieme tutti gli elementi che si hanno a disposizione.
Le guerre portano, oltre a morte e distruzione, il loro ampio bagaglio di incertezza.
E quando c’è incertezza è buona norma ridurre il rischio, che fa rima con azionario.
Nulla di più facile quando il mercato del reddito fisso offre rendimenti di tutto rispetto, anche sulle brevi scadenze, come oggi.
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